Contro la tratta nella pandemia

Gli operatori e le operatrici del Network  Antitratta per il Veneto N.a.Ve dialogano all’interno del progetto INSigHT con la redazione di InGenere. Quali sfide e strategie di adattamento ai tempi della pandemia nel lavoro con vittime di sfruttamento lavorativo e sessuale?

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Questi due mesi di “sospensione” dalla quotidianità, in cui le vite di tutte e tutti sono state soggette alle limitazioni previste per l’emergenza sanitaria Covid-19, hanno avuto un impatto particolarmente forte sull’intera società nella sua eterogenea composizione, e in modo peculiare nella vita delle potenziali vittime di grave sfruttamento sessuale e lavorativo.

Questo articolo è un’opportunità per ragionare su ciò che è accaduto all’interno dei servizi della regione Veneto dedicati alla tutela di questa specifica categoria di persone, cui è rivolta l’azione del Network Antitratta per il Veneto (N.A.Ve), soggetto attivo del progetto INSigHT,[1] che coinvolge ricercatrici e operatrici dall’aprile 2019.

Il confronto quotidiano tra ricercatrici e operatrici da un lato ha fatto emergere i paradossi dello smart working – la fatica di conciliare tempi e spazi di vita e lavoro a fronte di un sistema di welfare familistico che continua a far ricadere il carico del lavoro di cura quasi esclusivamente sulla componente femminile della società – dall’altro ha creato l’occasione per portare avanti riflessioni rimaste in sospeso e immaginare nuove tipologie di intervento.

Le azioni del N.A.Ve sono state riformulate per “tappe” a partire dall’individuazione dei bisogni delle donne e gli uomini vittime di tratta e grave sfruttamento sessuale e lavorativo durante il lockdown.

Le equipe si sono svolte online e hanno riguardato il coordinamento delle unità di contatto, di crisi e valutazione, lavoro e inclusione, case manager, comunità di accoglienza. Sono emerse molte riflessioni e azioni, anche creative, che mirano ad adeguare il supporto alle/agli utenti, a fronte della necessità di ripensamento del lavoro sociale in questo tempo di Covid-19 di cui riteniamo utile raccontare il come.

Come già raccontato su inGenere, dalle colleghe del gruppo Grips, a cui aderiamo e con cui continuiamo a condividere riflessioni, le strade sono rimaste vuote e le donne e donne trans, sex workers, hanno subito un’interruzione del lavoro sessuale.

Sottolineiamo di nuovo che, in particolare per le vittime di tratta, le fragilità economiche e sociali pregresse hanno reso queste persone ancor più vulnerabili alle conseguenze dell’interruzione del proprio lavoro, della necessaria riconfigurazione dei propri spazi e tempi di vita, dell’emergere di nuovi bisogni materiali anche connessi alle dinamiche delle sfruttamento.

Alcune donne, seguite dal programma di protezione, o con le quali c’era stato un primo contatto, hanno vissuto il rallentamento e la sospensione di alcune fasi della procedura di tutela: le commissioni territoriali per il riconoscimento dell’asilo si sono fermate; il rinnovo dei permessi di soggiorno è stato sospeso – con la scadenza successivamente prorogata al mese di agosto 2020; gli ingressi nelle strutture di accoglienza protetta hanno subìto un rallentamento per effetto di nuovi requisiti, tra cui la prenotazione del tampone Covid-19. Le tante donne, soprattutto nigeriane, che si prostituivano in strada e che abitano in appartamenti condivisi con i propri connazionali – spesso con accordi di affitto informali – hanno rischiato ancora di più l’invisibilità.

Le unità di contatto, che con le donne in strada – potenziali vittime o presunte tali – avevano un dialogo costante e che ne monitoravano i percorsi attraverso molteplici uscite settimanali, hanno intrapreso un lavoro di contatto indoor e la distribuzione di aiuti “spesa”, in alcuni casi anche in collaborazione con realtà di bassa soglia attive nei rispettivi territori provinciali. Lo spostamento della fase del contatto dall’esterno (la strada) all’interno (soluzioni abitative, magazzini, appartamenti condivisi, stanze di albergo) ha segnato alcuni importanti evoluzioni. Ad esempio lo stato di precarietà e incertezza sul futuro vissuto dalle donne, la necessità di richiedere un sostegno al reddito per l’affitto, le bollette e gli alimenti, ha rafforzato le relazioni esistenti e in alcuni casi aperto a relazioni di fiducia maggiormente solide.

Trascorse le prime settimane di lockdown, la percezione della mancanza di alternative ha favorito alcune emersioni dallo sfruttamento. Pensiamo in particolare alle donne dell’est Europa e ad alcune donne nigeriane, lavoratrici e vittime di tratta e sfruttamento sessuale, che stanno esplorando percorsi di vita e di accesso al reddito differenti e che per questo chiedono un aiuto diretto. Alcune donne hanno espresso la necessità di un sostegno nella riorganizzazione del lavoro sessuale da casa ed è emersa una forte rete di solidarietà tra alcune donne T che hanno mostrato una grande preoccupazione rispetto al ritorno al lavoro in strada, sia per motivi di salute, che di esposizione a ulteriori forme di sfruttamento.

Parte del monitoraggio a opera delle unità di contatto si è poi concentrato sulle forme di sfruttamento indoor, attraverso l’analisi di annunci online e di forum di clienti e i contatti telefonici.

Da questa pratica è emersa la posizione dei clienti che nei forum dedicati hanno mostrato preoccupazione per il rischio contagio da un lato, e intensificazione delle relazioni, anche di sostegno economico per alcune lavoratrici, dall’altro. È stata riscontrata la presenza di annunci di donne provenienti dall’est Europa e poche donne trans dall’America Latina, con un calo delle presenze di donne cinesi, tornate nell’invisibilità ancor prima del lockdown, anche a seguito della chiusura dei centri massaggi.

Sono assenti gli annunci di donne nigeriane – già scarsamente presenti – poiché i principali canali utilizzati restano Facebook e altre applicazioni come Badoo e Lovoo. Quest’ultimo gruppo è quello che ha maggiormente espresso paura e preoccupazioni per il virus e più in generale per la situazione di emergenza e le sue implicazioni in termini di percezione del reddito. Si è osservato come siano circolate molte informazioni errate, se non fuorvianti, sia rispetto alla tutela sanitaria che alle disposizioni ministeriali, sia attraverso reti informali e social media che attraverso alcune comunità religiose.

Il ruolo delle mediatrici e dei mediatori si è rivelato quanto mai essenziale, permettendo una continuità del contatto, garantendo ascolto nei momenti di crisi e solitudine che hanno facilitato le emersioni.

L’adeguamento del servizio ai mezzi telematici in alcuni casi è stato maggiormente efficace per l’emersione, alcuni colloqui in videochiamata sono stati più agili e hanno facilitato la narrazione. Inoltre, il contatto video tra operatrici, mediatrici e utenti ha permesso di rendere visibile lo spazio di vita delle persone, ha permesso di cogliere il loro stato d’animo, ha svelato “da vicino” le relazioni e le dinamiche domestiche – incluse le minacce di sfratto che rendono ancora più evidente la loro precarietà abitativa.

La maggior parte delle emersioni hanno riguardato lo sfruttamento lavorativo e sono state registrate nei territori di Verona e Vicenza, interessando soprattutto uomini di nazionalità indiana e bengalese, così come nel veneziano, mentre a Padova questo fenomeno ha riguardato prevalentemente i cittadini provenienti dal Marocco e un uomo di cittadinanza cinese. Questi soggetti sono sul territorio da tanti anni e lavorano nell’economia informale, e per loro si è avviata una fase di valutazione sul presunto sfruttamento lavorativo solidificando il lavoro multi-agenzia con l’ispettorato del lavoro e le forze dell’ordine nella riformulazione delle metodologie di intervento di tutela e supporto per la denuncia.

La tenuta della rete territoriale di fronte all’emergenza ha riguardato anche la dimensione della salute e la necessità di omologare i protocolli sanitari a livello regionale. Se gli accompagnamenti sanitari sono stati necessariamente ridotti, ma sono state garantite le prestazioni urgenti (per esempio le interruzioni volontarie di gravidanza), la richiesta di sottoporre beneficiari e beneficiarie dell’accoglienza a “tampone preventivo” prima di entrare nelle strutture, anche di fuga, ha portato alla luce l’esigenza di uniformare le prassi coinvolgendo gli enti locali.

Per i percorsi di inclusione e inserimento lavorativo di beneficiarie/i del progetto restano aperti grandi interrogativi poiché chiamano in causa una progettualità sociale che al momento è ancora più complessa per chiunque. Le attività formative stanno riprendendo online con l’aiuto di operatori e operatrici delle comunità di accoglienza, dove non sono mancati momenti di crisi legati all’isolamento forzato e all’interruzione delle progettualità di vita.

La sospensione dei tirocini ha visto di contro l’attivazione dello staff lavoro sulla riprogettazione delle azioni future cercando di mantenere attivi i contatti con le aziende per sondare le prospettive future – anche in termini di possibilità di reale assunzione – e orientando i futuri inserimenti in settori che meno hanno subito gli effetti del lockdown.

La riorganizzazione ai tempi del Covid-19 è stata condivisa nel “gruppo comunicazione”, nato proprio per sondare le criticità operative e accogliere nuove proposte di lavoro. Se questo momento ha obbligato lo stravolgimento di alcune prassi consolidate all’interno dei servizi, l’emergenza nella sua funzione di catalizzatore sociale, imponendo un ripensamento delle azioni, ha attivato nuove forme di immaginare il lavoro di tutela e sostegno delle vittime o potenziali di sfruttamento, con l’obiettivo di garantire interventi flessibili ma che non perdano la loro efficacia. 

 

L’ articolo è pubblicato sul sito InGenere che ringraziamo per lo spazio e l’occasione di dialogo prezioso.